Luci e ombre accompagnano i 60 anni trascorsi dalla proclamazione della Dichiarazione Universale. Se è vero che gli stati hanno dovuto fare i conti, sempre più, con le prerogative riconosciute dalla Carta, diversi ostacoli si frappongono alla loro realizzazione
La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani ha compiuto sessanta anni e la sua storia è un percorso ricco di luci e ombre. Ogni giorno i diritti primari di milioni di persone vengono violati, mentre in alcune regioni del mondo aumentano la fame e la repressione. Ogni giorno centinaia di persone subiscono torture, vedono negato il loro diritto di asilo, vengono perseguitate per il loro credo o per la loro ideologia politica, non hanno diritto a un giusto processo e la loro libertà di movimento è limitata. Ogni giorno crescono la percentuale di persone senza lavoro e il timore che gli stati non possano più far fronte a molte delle misure di assistenza a favore dei propri cittadini.
Ampliate le agende, cresciuta la cultura dei diritti
Ma ci sono anche degli aspetti significativi e positivi: i diritti fondamentali sono entrati a far parte della politica quotidiana di decine di paesi e sono cresciute la consapevolezza e la cultura dei diritti. Esistono organizzazioni ed istituti internazionali come le Nazioni Unite che agiscono da paradigma per il rispetto e la valorizzazione di tali regole. Nell’arco di questi ultimi sessanta anni il rispetto dei diritti umani ha ampliato le agende politiche e normative di moltissimi paesi, ha modificato le coscienze, ed in maniera più concreta ha garantito un sempre crescente numero di cittadini del mondo. Ad oggi, tutti i Paesi membri dell’ONU hanno ratificato almeno uno dei principali nove trattati sui diritti umani e l’80% ne ha ratificato quattro o più dando reale espressione all’universalità della Dichiarazione.
Le zone grigie nella applicazione della Dichiarazione non sono soltanto il risultato di differenti volontà politiche. Esse sono anche la risultante di condizioni sociali ed economiche profondamente diverse e diseguali. Diverse condizioni di partenza modificano sul nascere le aspirazioni di milioni di esseri umani, ed è proprio in questa direzione che si possono e devono muovere le istituzioni, i governi e le loro politiche: migliorare l’educazione pubblica, l’assistenza sanitaria, le condizioni economiche generali, l’ambiente sociale e naturale, non sono soltanto dei fini, ma anche dei mezzi per permettere lo sviluppo armonico di diritti più ampi e universalmente identificati.
Benefici per le persone, benefici per gli stati
La Dichiarazione dei Diritti Umani nel 1948 è nata “Universale” ma la sua applicazione non ha purtroppo trovato la stessa estensione che la definizione ne prevedeva. Il motivo di ciò è, probabilmente, che il principio di universalità si scontra continuamente con la realtà dei fatti, le ragioni imposte dai mercati e il principio di sovranità degli stati. La attuale crisi economica, per esempio, sembra faccia procrastinare come per incanto tutele e diritti del mondo del lavoro che davamo per consolidati. Considerazioni simili si potrebbero fare per il sacrificio dei diritti della libertà personale sull’altare della sicurezza di stato e della collettività. Si potrebbe obiettare che spesso la ragion di stato sovrasta il vero traguardo da raggiungere, che è quello della tutela della vita, della dignità e del benessere di ogni essere umano in ogni parte del mondo.
Alcuni paesi considerano come un’ingerenza inaccettabile il dibattito della comunità internazionale su alcuni diritti. Essi potrebbero invece ribaltare la prospettiva e considerare questo dibattito come un’opportunità per progredire verso traguardi reali. A questo proposito una buona prassi è quella di collegare il vantaggio dei diritti personali a quello comparato dei diritti della collettività, intesi come l’avanzamento delle condizioni sociali e, quindi, economiche. L’aumento della ricchezza e del PIL si dovrebbe accompagnare ad un progresso dei diritti della persona e non ritenere i due ambiti completamente scollegati.
Il ricorso alla forza
Sempre più spesso, quando la violazione dei diritti umani diventa una emergenza internazionale e si richiede a gran voce un intervento per la loro salvaguardia, il dilemma sull’uso o meno della forza amplifica il dibattito sulla questione. L’interrogativo in questo senso è se, e fino a che punto sia possibile, l’uso della manu militari per obbligare stati sovrani a rispettare diritti sanciti universalmente.
Se è più facile trovare un consenso sull’ingerenza umanitaria per salvare vittime di carestie o di pulizie etniche, si trova invece molto meno consenso all’idea dell’uso della forza per obbligare uno stato a rispettare il diritto delle donne alla parità o il diritto di tutti alla proprietà privata. Ciò dimostra che mancano gli strumenti normativi internazionali e una strategia politica coerente in tal senso. Anche in questa direzione, esistono delle grandi diversità tra stati.
È necessario dunque rivendicare e continuare a lottare per l’universalità di tutti quei diritti che a distanza di 60 anni sono ancora promesse mancate. È urgente iniziare un vero percorso di dialogo e comprensione dei nuovi scenari che stanno emergendo, partendo dalla speranza che la diversità di prospettive possa faticosamente ricomporsi in nome dell’unicità del nostro essere persone umane e della difesa della nostra dignità.
di Calvani, Filizola (Calvani è direttore dell’UNICRI, l’Istituto Internazionale delle Nazioni Unite per la Ricerca sulla Criminalità e la Giustizia; Filizola è consulente UNICRI per i media)
Quanto qui espresso è opinione degli autori e non rappresenta necessariamente la posizione delle Nazioni Unite.
Il seme sotto la neve – anno III, numero 8, Feb 2009