TORINO – Con un giro di affari di 200 miliardi di dollari, cresciuto, stando ai sequestri, nell’ultimo anno al ritmo da capogiro dell’88 per cento, la contraffazione è il più succoso business delle mafie globali del XXI secolo, quello che rende di più e quello che fa rischiare di meno. E quello che, agli occhi dell’opinione pubblica, sembra ancora un «male minore» rispetto al traffico di droga o di esseri umani. L’ultimo rapporto dell’Unicri, l’ agenzia delle Nazioni Unite per la ricerca sul crimine e la giustizia, parla invece di «minaccia globale». La contraffazione mette a rischio la nostra salute – basti pensare all’enorme quantità di medicine contraffatte in circolazione – e anche il nostro portafoglio. Solo in Europa l’importazione di cd, magliette, borse, pezzi di ricambio per automobili, software per computer costa la perdita di 100 mila posti di lavoro legali. Centomila buoni salari che vengono sostituiti da legioni di schiavi in Cina, Indonesia, Nigeria, costretti a lavorare per pochi centesimi all’ora senza nessuna garanzia e sicurezza. Per le organizzazioni internazionali la lotta alla contraffazione è quindi prima di tutto un dovere morale. Per le aziende una battaglia nella quale spesso si giocano la loro stessa sopravvivenza. Alla presentazione del rapporto Unicri, a Torino, ha partecipato anche Philippe Lacoste, erede del gruppo di abbigliamento francese e vicepresidente dell’Union des fabricants, una delle prime organizzazioni che a livello europeo si sono battute contro i falsi.
Monsieur Lacoste, quanto vi fanno perdere i falsi con il marchio del coccodrillo?
«I calcoli sono difficili. Ma, considerando il prezzo medio dei pezzi sequestrati e moltiplicandolo per il loro numero, abbiamo stimato in 260 milioni di euro le mancate vendite all’anno: per un gruppo con un fatturato di 1,4 miliardi di euro non è esiziale, ma significa comunque 1400 posti di lavoro in meno a livello mondiale, la metà in Europa. E poi c’è il danno di immagine, incalcolabile».
Cioè?
«Se cominciano a circolare massicciamente prodotti di scarsa qualità con il nostro simbolo, l’attrattività del marchio ne risente. Di recente, abbiamo avuto grossi problemi in Danimarca: le vendite sono crollate, abbiamo dovuto chiudere le nostre filiali commerciali».
E in Italia?
«In Italia, come in Francia e in gran parte dell’Unione Europea, le cose vanno molto meglio. Nel giro di pochi anni siamo riusciti a sensibilizzare pubblico e organi di repressione. Abbiamo lavorato bene. Ora la sfida è l’Asia».
Cina?
«Oltre ai prodotti contraffatti, in Cina c’è un fiorire di marchi simili al nostro, con il coccodrillo rovesciato, oppure che assomiglia un po’ a un drago: bisogna far capire, anche a livello legislativo, che è una concorrenza sleale non tollerabile. Ma sono fiducioso: in Cina stanno nascendo marchi importanti, multinazionali, che a loro volta sono colpiti dalla contraffazione. E questo li sta sensibilizzando al problema più di qualsiasi campagna: stanno capendo che i falsi gli costano più di quello che gli fanno guadagnare».
Qual è la ricetta per vincere la sfida?
«Informazione. E formazione. La gente deve capire che con i falsi corre del rischio. Finché si tratta di magliette, al massimo è capitato di ritrovarsi con i colori sciolti sulla pelle dopo un acquazzone. Ma sa che il 7 per cento delle medicine in Europa sono fasulle? Sono falsi che mettono in pericolo vite umane. Lo stesso con i pezzi di ricambio per le automobili. Sarebbe tranquillo se sapesse di avere sulla macchina freni non regolari, non testati?».
Informazione. E la formazione?
«Da anni lavoriamo con le forze dell’ordine, con i doganieri. Insegniamo a riconoscere i falsi, non è sempre facile. Se manca anche solo un elemento, è tutto più difficile».
«La contraffazione rende bene. Un programma per computer costa 20 centesimi e viene venduto a 45 euro. Mentre produrre un grammo di hashish costa 1,5 euro e ne rende solo 12». Sandro Calvani, direttore dell’Unicri, avverte che il fenomeno «è sottostimato». E per questo più pericoloso. Il rapporto dell’United Nations Interregional Crime and Justice Research Institute – che ha sede a Torino dal 1968 – è la prima indagine esaustiva a livello mondiale. Sotto accusa la Cina, da dove proviene l’86 per cento dei falsi. Ma anche l’Italia: terzo produttore mondiale, con la camorra campana che lavora gomito a gomito con le triadi cinesi.
La Stampa, 15 Dec 2007